Le donne dono di luce

Dedicato alle donne, dal mio caro Maestro Emerico Giachery

ELOGIO DELLE DONNE (CON PRELUDIO ONIRICO-MUSICALE)
di Emerico Giachery
Diversi anni fa, per ben due volte, l’inconscio, attraverso il sogno, richiamò il Tannhäuser. Pur amando Wagner, non ho un interesse specifico per quest’opera, che conquistò Baudelaire, quando fu rappresentata a Parigi nel 1860. Ricorderò solo che la geniale Ouverture, splendidamente eseguita a Roma con l’orchestra di Berlino guidata dalla mistica bacchetta di Willhelm Furtwängler nei primi anni del dopoguerra, rappresentò per me un’autentica rivelazione, un “evento”. Nel tempo in cui si espressero i due sogni, ascoltati e registrati con partecipe interesse, dell’opera mi attrasse il cammino di purificazione e di iniziazione, che rispecchia il nostro itinerario verso il Sé.

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L’opera wagneriana è ricca di spunti simbolici, di emozionanti archetipi. Anzitutto il monte di Venere, Venusberg, con la sua seduzione; e, contrapposta, Elisabetta, portatrice di redenzione (classica antitesi del Femminile, che culmina nel rapporto Eva-Maria). Inoltre: il pellegrinaggio verso Roma, forte emblema di centralità, e sede storica convalidata del Sacro (evidente ormai l’importanza del Sacro nella mia esperienza sia esistenziale sia saggistica). Infine, la possibilità di rinnovamento, di rigenerazione espressa dal bastone pastorale che dovrebbe verdeggiare come una pianta viva.
Con un’immagine di templare-trovatore-pellegrino – archetipo per uso personale molto affine a Tannhäuser – mi sono a lungo identificato in anni giovani; e forse non ho mai cessato di essere l’antico Minnesänger pellegrino sulla via del Sacro. Fermiamoci per un attimo sulle immagini emerse nelle poche righe che precedono: Venere, Elisabetta, e l’importanza centrale del femminile, e il duplice volto del femminile, e la strada da percorrere per realizzare se stessi, e la dominante presenza del sacro, e la musica in cui tutta la leggenda, la fabula, è immersa, e insieme trascesa, dal genio wagneriano.
A questo punto, ecco tornare alla mente un sogno lontano, che mi era sembrato a suo tempo molto significativo. Sul mio cammino appariva una targa stradale con la scritta Via musica, ed era una strada che convergeva con una Via Eva, allusione sin troppo evidente all’archetipo di un Eterno Femminino non sublimato, ma comunque primigenio, direi assoluto. Musica aveva quasi connotato di aggettivo, come nei musici concenti di Leopardi. Mi pareva che nel sogno Via musica fosse seguita da un ad, con l’indicazione di una destinazione. Quale la meta indicata dalla preposizione ad? L’avevo purtroppo dimenticata al risveglio, ma la sapevo così essenziale per la mia vita, che osai integrare con Deum: addirittura Via ad Deum. Perché no, se si ricomincia a parlare, anche da teologi, di Via pulchritudinis? Certo, nel mio cammino e destino la via “musica”, o anche “musaica”, via delle Muse, della epifanica bellezza e della orfica armonia, mi ha addotto ad approdi capaci di offrirmi «quel cibo che solum è mio et ch’io nacqui per lui». La Via Eva, allora? Beh, in una delle sue pagine più fervide e da me predilette, il Proemio alla Quarta Giornata del Decameron, Boccaccio, che se ne intendeva, ci ha insegnato che «le Muse son donne». Come d’altronde lo sono le Cariti, o Grazie. Quanto alla confluenza musicale, cosa si può immaginare di più femminile del celebre quadro di Gustav Klimt, dipinto in due versioni (di cui una perduta) e intitolato Allegoria della musica?

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Piccolo preludio onirico-musicale, si direbbe, quello che precede, in cui la musica, per impulso incoercibile dell’inconscio, converge con la Donna. È piacevole soffermarsi un po’ in questo ameno soggiorno tra Muse e Donne. Boccaccio aiuta con la sua splendida pagina. Pagina che è un elogio delle donne, da me condiviso in pieno. A dire il vero un elogio delle donne piacerebbe molto anche a me scriverlo, non fosse che per controbattere lo scandaloso maschilismo imperversante in tanta parte del mondo, spesso ancorato a capziosi supporti giuridici e religiosi: alle “quote rosa” per fortuna copiose nei nostri parlamenti sarebbe difficile attenersi all’assurda ingiunzione «tacciano le donne nelle assemblee», I, Corinzi, 14,34 , o accettare senza eventuali precisazioni l’inizio del versetto 38 della Sura IV: «La donna è inferiore all’uomo». Tanto più che gli abituali partecipanti a dimostrazioni, marce e cortei sembrano (o sbaglio?) scarsamente interessati alla condizione della donna, al suo asservimento violento, alla sua disparità giuridica in troppi paesi. Eppure si tratta di uno dei più dolenti problemi della comunità umana. Jung, per quel che ricordo, ha affermato che ci sarà equilibrio nel mondo soltanto quando la donna acquisterà la pienezza dei suoi diritti e della sua piena presenza.

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Ma a indurmi a scrivere un elogio delle donne e della Donna sarebbe un movente molto più profondo e personale, che apparirà nelle pagine seguenti. Fatto sta, tuttavia, che per un uomo scrivere, senza «né risentimenti, né illusioni, né astrazioni teoriche», sulla donna, così diversa da lui e in molti aspetti opposta, è impossibile, secondo Jung (qualche eccezione per gli autori di Antigone e di Phèdre, per Flaubert, per Tolstoi, e via dicendo, possiamo anche farla!). Questo l’ho imparato scartabellando tra i non pochi volumi junghiani della mia biblioteca, in cerca dell’importante affermazione citata poche righe sopra, che peraltro corrisponde alla concezione del grande maestro della psicologia analitica. Ma è stato come cercare un ago in un pagliaio. Ecco, però, che dal saggio La donna in Europa è emersa un’asserzione, che spero profetica. La traduco per offrirla ai lettori e specialmente alle lettrici, destinatarie privilegiate di queste pagine: «La donna d’oggi ha dinnanzi a sé un enorme compito culturale che prepara forse l’alba di un’era nuova».
Rivolgendosi alle donne in prima persona, Boccaccio scrive così: «io, il corpo del quale il Ciel produsse tutto atto ad amarvi, et io dalla mia puerizia l’anima vi disposi, sentendo la virtù della luce degli occhi vostri…», e così via. Incline per indole a sogni cavallereschi (ecco già riaffacciarsi l’archetipo del cavaliere evocato poco fa), e perciò molto più affine a Federigo degli Alberighi (Giornata Quinta, Novella Nona) che non al malizioso Boccaccio del testo qui ricordato, nella “mia puerizia”, collezionavo comunque “fidanzate”. Fu precoce, in un cantuccio recondito di casa, il primo bacio, censurato da un intervento materno. Erano tempi di ottusi moralismi, di deleteria repressione di così spontanei e gentili atti di fresca vita. (Non ci si crederà: il 18 marzo 1666 papa Alessandro VII aveva stabilito che persino i baci «dati per il solo diletto sensibile» possono spedire dritti dritti all’inferno!). Quanti anni, troppi, troppi, per arrivare al secondo bacio e inaugurare la nuova serie!
«La virtù della luce degli occhi vostri», scrive dunque Boccaccio. Poi enumera molte altre qualità femminili più concrete, che apprezzo – c’è bisogno di dirlo? – ma qui non rievoco. Studioso appassionato, negli ultimi anni, della luce, del grande motivo della luce, sia in poesia sia nella simbolica dello spirito, mi approprio, per ora, di quella “luce” muliebre, che ai miei occhi nasceva da fondo d’anime, attingeva all’essenza perenne del Femminile: quasi sostanza cosmica. Anche senza arrivare a divinizzarla, come fanno i versetti del Tantra: «La donna è il creatore dell’universo. / È il vero corpo dell’universo. / Non c’è felicità come quella che dà la donna».
Mi riconosco in pieno in un verso di Petrarca così caro ad Ungaretti e per lui così esemplare, da definirlo una volta il più bel verso che mai sia stato scritto: «E m’è rimasa nel pensier la luce». Da alcune incarnazioni dell’Eterno Femmino, ma solamente da «coloro che sono gentili e che non sono pure femmine» (Vita Nuova, XIX), m’è pervenuta tanta luce, tanta poetica luce. Un destino di timido Tantalo ha fatto sì che di solito gli oggetti d’amore sfuggissero, inseguiti anche in paesi lontani. Dissoltasi, col fluire del tempo e della vita, l’ombra sofferta della privazione e della rinuncia e delle attese struggenti e vane, è rimasta la luce.
Petrarca, Simone Martini e i germi d’alta nobiltà e civiltà dello spirito d’una Toscana che è al contempo Europa generano il volo («Vola alta, parola, cresci in profondità… sii / luce, non disabitata trasparenza…») di un toscano europeo che ha riletto Dante accanto a Mallarmé: Mario Luzi. «Ed ecco che salvifica interviene la luce, legata però alla figura di una donna, affiorante di notte in notte». Un teologo aperto, come tutti dovrebbero essere, alla bellezza, saluta così i versi del poema Il pensiero fluttuante della felicità dal volume Su fondamenti invisibili:

Finché una luce senza margini d’ombra
illumina l’oscurità del tempo,
risale ad uno ad uno i suoi tornanti
e m’accorgo di te entrata nella mia vita…

(Scorre scorre il cammino della vita; ma ecco, non previsto, un appuntamento del destino…)
“A Noemi, che è dono e luce”: è questa, non poteva essere che questa, la dedica del primo libro pubblicato dopo l’unione sacra con la donna del mio destino e della mia vita. Dopo più di un trentennio vissuto insieme, la riscriverei con le stesse parole. La luce, quando si manifesta non solo come bagliore, ma anche come continuità e durata, acquista particolari modalità e qualità. Il dono di luce si diffonde nel quotidiano per conferirgli significato e sapore. Avvalora la condivisione, che arricchisce le occorrenze del vivere («il partage è ciò per cui siamo nati», scriveva, e praticava, il grande amico d’anni giovani Eugène Kuttel, deputato a Berna). Bellezza di un luogo bello visto insieme, di un’opera bella ammirata insieme: quella bellezza era lì proprio per aspettare noi due; e per che altro, sennò? Altra cosa importante da tener presente: commentata a due voci, con scambio di sensazioni e di impressioni, l’esperienza della bellezza si potenzia in pienezza e in senso.
Non più giovani (stavo per aggiungere ‘ahimè’, ma no, no, sarebbe ingratitudine verso il destino), seduti quietamente, vis à vis, in un locale accogliente e gentile, come lo vedo sempre bello il viso di lei! Nel fluire della vita, il dono di luce compenetra le mille attenzioni e premure, e la tenerezza discreta di certi gesti e sguardi, che vorrei – e purtroppo non sono – esser sempre capace di cogliere e apprezzare nei minimi particolari, e prontamente ricambiare. Chissà di quante provvide attenzioni e premure oblative non ho neppure contezza: sbocciano nel silenzio, anche in mia assenza o in momenti di mia inadeguata ricezione. Nulla però va perduto. Tutto si fonde in aura, in essenza di vita, e si respira con l’anima. Chi respira, si sa, non si accorge neppure di respirare; ma l’anima ne resta misteriosamente ossigenata.
Ogni distrazione dietro un pensiero che abusivo ci occupa, quando invece uno sguardo di tenerezza cerca e chiama il nostro, è mancanza non veniale. Prendersi il proprio tempo: nemica è la fretta, il rimo alienante delle nostre vite, anche contro saggi propositi. Ogni occasione di luce, anche piccola (ma no, non ne esistono di piccole) da costruire e vivere in due va colta e tenuta ben stretta e conservata poi gelosamente come “ricordo di luce insieme” da rigodere, in aroma e senso, nell’avvenire. È irripetibile e sacra. Sacra verso la Vita.
La mia “fotologia dell’anima” insegna che la luce del “due insieme” (uniti e distinti) della coppia integrata ha maggiori possibilità di operare beneficamente su altri, di generare atti e climi positivi intorno a sé.

Il “motivo coniugale” diffonde una melodia delicata. Lo so bene. Quel motivo, ora, lo sento crescere di intensità, tra le cadenze della scrittura, e potrei lasciarlo cantare ancora un poco. Ma gli si addicono toni discreti e sommessi, timbri vellutati. Metto la sordina alla piena del cuore.
Prendo di nuovo a braccetto l’amico Boccaccio, lui così malizioso, io così candido e ben lieto di esserlo. Per concludere, mi riallaccio a uno spunto iniziale. Anche dalle donne che mi hanno donato non molto più che immagini da sognare, da ricordare dolcemente, da desiderare ardentemente, da associare a progetti di vita non realizzati – a volte anche la distanza e l’assenza hanno una propria musica, raffinano il sentire, cesellano l’anima – m’ è pervenuta luce. A volte soltanto un bel sorriso, un bel sorriso convinto di donna (come del resto quello di un bambino felice) può accrescere la durata della vita. Ne è scaturito, verso l’Eterno Femminino, un flutto di gratitudine da tesaurizzare con gioia.

One Comment

  • Eleonora wrote:

    Credo di non aver mai letto qualcosa di più bello sulle donne! Grazie maestro!

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